La via appia antica
La fonte Egeria, la via Appia, la tomba di Cecilia Metella, l’acquedotto romano, la villa di Massenzio , il circo di Caracalla
La fonte Egeria
La fonte Egeria è una delle tante fonti, circa una decina, che alimentano il fiume Almone e definite dai Romani in via unitaria con il nome di Lacus Salutaris. Egeria è anche l’acqua di Roma per eccellenza, quella che troviamo sulle tavole della maggior parte delle trattorie romane.
Il fiume Almone, fiume sacro ai Romani, scorre lungo il fondovalle della Caffarella, fino a raggiungere direttamente le acque del Tevere all’altezza dell’Ostiense. Almone, il rivo venerato come una divinità, dove i sacerdoti della Magna Mater il 27 marzo di ogni anno lavavano il simulacro della dea Cibele, la mai nata e sempre esistita, la dea di tutte le cose viventi, l’eterna, la Grande Madre, Magna Mater appunto. (grande madre).
Il culto di Cibele, protettrice della terra, della natura e degli animali, divinità ambivalente che simboleggia sia la forza creatrice che quella distruttrice della Natura, era originario dalle colonie greche dell’Asia Minore ed era molto sentito presso i Romani.
Presso la Fonte Egeria ci sono i resti del Ninfeo dedicato alla dea. Egeria era una Ninfa Camena, che significa cantante, vaticinatrice e secondo la leggenda fu amante e consigliera del Re Numa Pompilio, successore di Romolo fondatore di Roma, a cui svelò i segreti dei riti religiosi più graditi agli Dei. Fu Numa quindi ad inserire nella vita quotidiana dei primi Romani il culto degli dei e i riti sacerdotali propiziatori. Gli incontri tra il Re e la ninfa si svolgevano nella Grotta nel bosco, dove fu eretto il Ninfeo, denominato Bosco delle Camene. Quando il Re morì la Ninfa si sciolse in lacrime dando vita alla sorgente esistente appena fuori la Porta Capena e l’inizio dell’Appia, la Regina Viarum.
Porta Capena era la porta, il luogo sacro che delimitava il cuore della Roma antica e repubblicana, all’incrocio dei tre Colli Palatino, Celio e Aventino.
Oggi la Porta Capena non esiste più, è un enorme piazzale in cui convoglia un traffico intenso e incessante, da cui inizia via delle Terme di Caracalla che termina su un altro grande piazzale intitolato proprio a Numa Pompilio.
Da porta Capena iniziava anche la via Appia e subito dopo, nel tratto leggermente in salita prima della Porta S. Sebastiano, vi era il tracciato dell’antico Clivus Martis, colle di Marte, dove era stanziata la prima colonna militare della forza bellica romana, la Legio Martis, che aveva un grande prestigio e il compito di difendere le istituzioni, il Senato e l’imperatore.
Oggi proseguendo il sentiero verso il ninfeo si arriva alla fonte dove da centinaia di piccole cannelle sgorga l’acqua Egeria e dove è ancora possibile approvvigionarsi di acqua minerale.
Lungo la strada la tomba di Geta, figlio di Settimio Severo, fatto uccidere dal fratello Caracalla nel 212d.c. e il Tempio del Dio Redicolo, il dio che proteggeva il ritorno dei Romani nella loro città, i redicoli appunto, secondo la leggenda il dio Redicolo si distingueva per essere era stato colui che aveva costretto Annibale a tornare indietro dopo essere arrivato alle porte di Roma, davanti alla Porta Tiburtina il tempio è considerato anche il sepolcro di Annia Regilla, nobildonna romana, proprietaria di vasti terreni sulla via Appia, andata in sposa al famoso Erode Attico, precettore dei futuri imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero, e che morì prematuramente nel 160 d.C. durante un viaggio in Grecia.
Prima di arrivare alla Porta San Sebastiano c’è un grande spiazzo dove si incrociano via Ardeatina, le Catacombe di S. Callisto e la Chiesetta del Domine Quo Vadis?, letteralmente Signore dove vai?
Secondo una tradizione popolare in questo luogo Gesù sarebbe apparso a San Pietro che fuggiva da Roma per sfuggire al martirio e alla domanda dell’Apostolo che gli chiedeva “Domine quo vadis” Gesù avrebbe risposto “venio Romam iterum crucifigi” (vengo a Roma per farmi crocifiggere di nuovo). Pietro capì e tornò indietro ad affrontare la morte.
Proseguendo il tracciato della via Appia verso il Mausoleo di Cecilia Metella, è tutto un susseguirsi di monumenti a perdita d’occhio che testimoniano la storia di Roma: i templi, i monumenti funerari e la via Appia che è un monumento essa stessa, con le sue grandi pietre di basolato, solcate dalle ruote dei carri ancora visibili, con i suoi crepidanes, i marciapiedi romani che raccontano una storia di grandiosità, concretezza e bellezza realizzati dal popolo romano con il suo ingegno e le sue regole ferree.
La via Appia, Regina Viarum, regina delle strade, è la più grande opera di ingegneria del mondo antico. Realizzata in diversi anni, a partire dalla fine del secolo IV e inizio del secolo III a.C in piena epoca repubblicana, ebbe un impatto enorme in termini militari, economici e culturali perché avvicinò Roma ai popoli dell’Italia meridionale della Magna Grecia. E avvicinare i popoli per i Romani voleva dire muovere le legioni, già impegnate in quegli anni di conquiste nelle guerre sannitiche.
Fu il censore Appio Claudio Cieco, Appius Claudius Caecus, esponente della Gens Claudia, che fece iniziare i lavori nel 312 a. C. ampliando una strada già esistente che collegava Roma ai Colli Albani, prolungandola fino a Capua, città da poco passata sotto il dominio romano, per agevolare lo spostamento delle truppe militari. Successivamente il tracciato fu esteso fino all’attuale Benevento. I lavori si protrassero fino alla metà del III secolo quando fu raggiunta Taranto, e solo nel 190 fu completato il percorso fino a Brindisi che era il porto per la Grecia e l’Oriente.
Oggi quanto ancora resta della strada antica fa parte del Parco dell’Appia Antica, tutelato dalle normative sulla conservazione del patrimonio storico-archeologico e paesaggistico.
Questa grande opera di ingegneria segnò anche il passaggio a una nuova tecnica che favoriva il drenaggio delle acque consentendo di utilizzare la strada in tutte le condizioni atmosferiche. Costituita da grandi pietre levigate di pietra vulcanica di particolare durezza e resistenza, denominati basoli, venivano fatte combaciare al momento della posa a terra, sbozzandole e colmando eventuali spazi residui con piccole zeppe di pietra. Il basolato poggiava su vari strati di pietrisco e di terra in modo da non subire il naturale abbassamento del terreno.
Il percorso era il più possibile rettilineo, con una larghezza di circa 4,1 metri (14 piedi romani), misura standard che permetteva la circolazione dei carri nei due sensi di marcia, affiancato, nelle zone urbane, da marciapiedi, crepidines, su entrambi i lati per il transito pedonale.
Il percorso originale dell’Appia Antica, partiva da Porta Capena, collegava l’Urbe a Capua, passando per Aricia, il Forum Appi, Anxur (odierna Terracina) nei pressi del fiume Ufente, Fundi (Fondi), Itri, Formiae, Minturnae e Sinuessa (odierna Mondragone).
La via Appia è famosa anche per aver visto perpetrare da parte dei Romani uno dei genocidi più noti nella storia dell’umanità, ossia la crocifissione dei circa 6.000 schiavi ribelli, guidati dal celebre Spartaco nel 71 a.C., come monito per tutti i numerosi schiavi presenti sul territorio italiano.
La strada fu restaurata ed ampliata durante il governo degli imperatori Augusto, Vespasiano, Traiano e Adriano. L’imperatore Traiano fece anche realizzare, tra il 108 e il 110 d.C., una diramazione denominata via Appia Traiana, che da Benevento raggiungeva Brindisi attraversando la Apulia, la Puglia, con un nuovo percorso in gran parte vicino alla costa e pianeggiante.
Dopo le invasioni barbariche e la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, la mancanza di opere di manutenzione provocò gradualmente l’abbandono di segmenti del percorso della via Appia. Nel 535, lo storico bizantino Procopio la descrive ancora in buono stato di conservazione, e, se pur non integralmente percorribile, nel Medioevo l’Appia divenne, con la via Traiana, la strada dei crociati diretti in Terra Santa. Dal porto di Brindisi salpò anche Federico II diretto in Palestina nel 1228.
Tomba di Cecilia Metella
Tra i più famosi monumenti funerari dell’epoca romana, in ottimo stato di conservazione, il Mausoleo si staglia superbo nello scenario pittoresco. Mausoleo di forma cilindrica di 20 m di diametro, impostato su un basamento quadrato rivestito di travertino, ha in alto un elegantissimo fregio recante due scudi, festoni e bucrani. Una grande lapide rivolta verso via Appia ricorda che vi è sepolta “Cecilia figlia di Quinto Metello Cretico”, il conquistatore di Creta, e moglie di Crasso, figlio del Triunviro e generale di Cesare in Gallia. Il monumento risale quindi agli ultimi decenni dell’epoca repubblicana.
L’opera terminava con una diversa merlatura rispetto a quella oggi esistente che risale invece al Medioevo, rifatta dai Caetani che adiacente alla tomba, che usarono come fortilizio, costruirono anche un castello. Dell’imponente castello, nonostante le spoliazioni subite, restano grandi e pittoreschi avanzi di mura, merli ghibellini e torri quadrate, bifore tribolate.
A sinistra della piazza centrale del castello, si passa sotto un arco e si accede alla cella sepolcrale di Cecilia, cilindrica nella parte inferiore e rastremata a cono verso l’alto.
La Villa di Massenzio, Il Sepolcro di Romolo, il circo
Innumerevoli sono le rovine monumentali nei pressi del Mausoleo di Cecilia Metella, la Villa di Massenzio, il Circo e il Sepolcro del figlio Valerio Romolo, fatto edificare in onore del giovane Romolo scomparso precocemente nel 309 d.C. a soli 15 anni e successivamente trasformato in tomba dinastica per tutta la famiglia imperiale, visto il numero dei loculi che si trovano al suo interno negli anni tra il 306 e il 312 d.c.
Massenzio, divenuto imperatore per acclamazione della guardia pretoriana, aveva riportato la capitale da Milano a Roma e qui si adoperò, nel corso del suo breve regno (306-312), in grandi opere pubbliche, tra le quali la residenza imperiale. L’intero complesso fu realizzato in opus listatum, con alternanza di tufelli e mattoni.
La Villa di Massenzio, detta anche palazzo imperiale di Massenzio, era stata una proprietà privata prima di essere annessa al patrimonio imperiale, appartenuta ad Erode Attico, che fu condannato per la morte della moglie Anna Regilla e perse tutti i suoi beni.
Dei tre edifici che compongono la villa imperiale, il Palazzo è quello meno conservato. Era collocato su una collinetta fornita di un terrazzamento sostenuto da un criptoportico da cui si godeva la vista del circo, posto invece in un leggero affossamento naturale, e della tomba della famiglia imperiale con l’ingresso rivolto verso l’Appia, la via dei sepolcreti.
Il circo veniva utilizzato per le corse dei carri con i cavalli, quello di Massenzio era lungo circa 500 metri e largo 90. Al centro è ancora visibile la spina, asse centrale del circo. La struttura separatoria, lunga 1000 piedi romani ossia 296 m, aveva ai suoi estremi due metae semicircolari, di cui una ancora esistente e il pulvinarae dove erano situati gli arbitri delle gare.
Al centro del circo, si collocavano dieci vasche, per abbeverare i cavalli e rinfrescare gli equipaggi durante la gara, che si susseguivano costituendo un canale (euripus), intramezzate da due edicole su colonne che sostenevano le sette uova e i sette defini, destinati ad indicare, a seconda della posizione, alzata o abbassata, i giri di pista da compiere.
A metà era posto l’Obelisco di Domiziano proveniente dal Tempio di Iside al Campo Marzio. Successivamente utilizzato da Gian Lorenzo Bernini per decorare la Fontana dei Quattro Fiumi in Piazza Navona.
L’acquedotto Romano
Tra la via Appia antica e la via Tuscolana si estende un’area verde di circa 240 ettari, tra le attrattive paesaggistiche più suggestive della campagna romana fino ai Castelli, la cui visita suscita grandi emozioni soprattutto là dove le arcate degli acquedotti si stagliano verso il cielo in una suggestiva atmosfera sospesa nel tempo e di grande bellezza.
Residuo di un tratto della campagna romana che raccordava in origine i Colli Albani e le porte della città, ben 7 sono gli acquedotti le cui vestigia sono ancora esistenti: l’AnioVetus, l’AnioNovus, quello dell’Aqua Marcia, della Tepula, l’acquedotto Iulia, quello dell’Aqua Claudia e l’Acquedotto Felice, ancora funzionante, edificato nel 1585 da Papa Sisto V sulle arcate dell’Acquedotto Marcio.
Gli acquedotti romani sono tra le opere più imponenti e significative di tutta l’epoca romana, di straordinaria ingegneria, il cui livello qualitativo e tecnologico non ebbe uguali per oltre 1000 anni dopo la caduta dell’Impero Romano. I Romani costruirono acquedotti in ogni parte del loro impero, anche molto lontano dal suolo italico.
L’estremità superiore ha un canale in cui scorre l’acqua in una sezione a “U”. Gli archi del livello inferiore hanno pilastri che aumentano gradualmente di spessore (dall’alto verso il basso) man mano che aumenta l’altezza del terreno, dovendo rimanere fissa la quota del canale superiore.
In tutto il territorio dell’impero ne furono costruiti oltre duecento e solo a Roma ne esistevano ben undici per alimentare il sistema delle terme e dei bagni pubblici. Alla fine del I secolo d.C. la tecnologia portò Roma ad immagazzinare quasi un milione di metri cubi di acqua potabile che giungeva ogni giorno in città, quasi mille litri per abitante