Villa Borghese e i Giardini Del Pincio
In posizione geografica sopraelevata e scoscesa rispetto alla città di Roma, e alla pianura del Tevere, Villa Borghese si estende per circa 80 ettari.
È il quinto più grande parco pubblico a Roma dopo la parte pubblica del Parco regionale dell’Appia antica, il Parco regionale urbano del Pineto, Villa Doria Pamphilj e Villa Ada.
Negli anni 1786-1788 Villa Borghese era una grande tenuta verde di proprietà del principe Camillo Borghese al cui interno, oltre ad altri fabbricati, si ergeva la sua villa di campagna (oggi Museo Borghese) che negli anni era diventata una casa museo dove il principe raccoglieva le sue collezioni d’arte e di antichità.
Durante l’occupazione francese degli anni 1809-1814 la grande tenuta subì cambiamenti notevoli, soprattutto nella parte prospiciente la città, in una visione urbanistica che assicurava continuità tra Villa Medici, antico possedimento francese, e la Chiesa di Trinità dei Monti e creava un grande giardino verde collegato alla città stessa che ne rappresentasse il naturale prolungamento.
Secondo Napoleone il popolo romano era stato costretto per troppo tempo in spazi angusti sulle rive del Tevere e meritava uno spazio ampio in cui passeggiare e distrarsi. E Villa Borghese è ancora oggi un grande cuore verde, il parco più famoso della Capitale, dove portare i bambini alle giostre, sui trenini che fanno il giro del parco, sulle biciclette o sui pattini e dove si tengono importanti manifestazioni equestri, spettacoli teatrali e diverse manifestazioni.
La grande impresa urbanistica fu affidata a un architetto francese, Louis Martin Berthault. Ma con il ritorno del Papa, Pio VI affidò l’incarico del proseguimento dell’opera all’architetto Giuseppe Valadier che concluse i lavori all’inizio del 1820. Valadier conservò l’impostazione data dai francesi ma con un’impronta fortemente neoclassica, con l’ellissi della Piazza del Popolo e le due ampie rampe di raccordo, adornate da alberi e carrozzabili, che permettevano la salita del colle del Pincio e di raggiungere la terrazza appena realizzata, la terrazza del Pincio.
Successivamente, con la Repubblica Romana, i giardini del Pincio ospitarono, e ancora oggi ospitano, i busti marmorei di italiani illustri (oggi sono 224) che iniziarono ad essere scolpiti nel 1849 durante la Repubblica Romana con un preciso scopo celebrativo e pedagogico, di grande valore simbolico, patriottico e risorgimentale.
L’opera di scultura dei busti voluta espressamente da Giuseppe Mazzini, che attraverso di essi intendeva favorire un’azione di riscatto popolare, di memoria storica e di ricordo, durò alcuni anni e proseguì anche oltre la proclamazione dell’Unità d’Italia del 1861.
I giardini del Pincio rappresentarono quindi una grande opera architettonica che collega la città e il suo cuore pulsante alla grande area verde, in continuità con le architetture classiche esistenti, come Villa Medici e la scalinata di Trinità dei Monti.
Il colle del Pincio dominava la città già in epoca romana, alle sue spalle l’area verde era contenuta all’interno delle possenti fortificazioni delle Mura Aureliane e solo dopo di queste si apriva l’immensa campagna.
Affacciato sul Campo Marzio, il colle prende il nome da una nobile famiglia romana che fu tra le ultime ad avere una villa sul colle lasciando in eredità il loro nome. Si estende dove sorgevano un gruppo di sontuose dimore romane che qui avevano i loro horti, gli Acilli, i Domizi, sulle cui tenuta furono sepolte le ceneri di Nerone e oggetto nei secoli di omaggio da parte dei Romani, i Pincii appunto e la sontuosa villa di Lucullo edificata dopo il 63 a. C. sulle pendici del colle, dopo la vittoria su Mitridate, e di cui restano poche rovine inglobate nel parco di Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia.
Faceva parte della VII Regio augustea che, proprio sotto la collina del Pincio e fino a via Lata, si trasformò nel corso del II secolo d. C. in una zona intensamente edificata con abitazioni, porticati lungo le strade dove si aprivano le botteghe e negli spazi liberi dal Campo Marzio. La stessa zona dove con la stratificazione dei secoli successivi, ancora oggi si aprono piazze e strade famose in tutto il mondo. Basti pensare a Piazza di Spagna, a Trinità dei Monti, a via Sistina, a via Frattina e a via Condotti .
Dalla balconata del Pincio, opera del Valadier, si gode una vista mozzafiato sulla città. Da qui è possibile ammirare Piazza del Popolo, con i due emicicli intorno al grandioso obelisco faraonico, la fontana sorretta da quattro leoni, le cupole delle due Chiese che fiancheggiano l’imbocco in via del Corso e quella di Santa Maria del Popolo. Di fronte, il lungo rettilineo di via Cola di Rienzo che termina al Vaticano, la maestosa cupola di San Pietro, l’isola Tiberina, l’Ara Pacis, la cupola del tempio ebraico e quella del Pantheon, il monumento al Milite ignoto e un numero indefinito di palazzi e giardini. Sullo sfondo il colle di Monte Mario con il suo Osservatorio astronomico, la villa Miani, il Gianicolo, il monumento a Garibaldi. E dopo tanto magnificenza, lo sguardo si sofferma sullo scorrere del fiume, le acque del Tevere che risplendono nelle giornate di sole e accompagnano placide da secoli lo scorrere frenetico della città.
Il tempo non è mai abbastanza per ammirare questo straordinario paesaggio, come a voler imprimere negli occhi tutto quello che è possibile, a voler far nostro quello che Aristide Gabelli definì “questo piccolo spazio che lo sguardo abbraccia senza fatica, il punto più storico di tutto il mondo” e con retorica tutta ottocentesca “la terrazza del Pincio sembra un palco estratto dalla mano dell’uomo riconoscente per ammirare lo spettacolo più grandioso che un Dio d’amore possa offrire alle sue creature “.